Tirava un’aria strana. Noi e loro. C’era appena una striscia di plastica leggera della Polizia di Roma capitale, come confine tra due mondi. Quattro o cinque telecamere, nessun taccuino, ché ultimamente non si usa più. Via Amulio, strada romana in semi centro. La Banca d’Italia ad un passo. Cinquanta metri dal sancta sanctorum del neofascismo, l’ex sede missina di via Acca Larenzia 28. Meno di cinquecento metri dalla via Appia. Una decina di blindati azzurri, gli idranti, perché, vista l’aria ultimamente nelle piazze della capitale, non si sa mai. I funzionari di polizia sono nervosi, guai a superare la linea che divide noi da loro, i giornalisti dagli ultras. L’importante è evitare problemi, non si dialoga. Rimane la distanza, e non per il Covid.
Via Amulio è stata la sede dei neofascisti di Forza Nuova. Poi degli “Irriducibili”, nome che dice tutto. Sigla trasformata, dopo la morte di Fabrizio Piscitelli, meglio conosciuto come Diabolik, semplicemente in Ultras Lazio. Qui avevano nascosto la panchina dove è stato freddato il loro leader, nel parco degli Acquedotti, non molto lontano. Scenario reso celebre dalla Grande bellezza, affresco indimenticabile dell’indolenza decadente della Roma, del XX secolo. Uguale a quella dei secoli passati, in fondo.
Noi e loro, dunque. I gesti sono calmi. Parlano, poi si girano. Sguardo diretto, tagliente. Non ci sopportano. “Giornalista terrorista”, gridano negli stadi. Anzi, gridavano, visto che ormai sono nove mesi che le curve le vedono solo su Sky. Inutile partire con la sociologia delle borgate, vademecum che ormai non esiste più. C’è tanta Roma nord, zona ponte Milvio, che a Roma vuol dire fascisteria. Ma c’è di tutto, perché la periferia è una categoria che attraversa la città, la taglia, la incide, la scava nelle fondamenta.
In fondo non sappiamo nulla di loro. Quando li incontri hai sempre un funzionario di polizia che divide o una striscia di plastica che marca la frontiera. Siamo un bersaglio. Al circo Massimo, lo scorso giugno bastò un nulla e una valanga di bottiglie, pietre e petardi si riversò sulla nuvola di telecamere, microfoni e qualche – raro – quaderno arrivato per raccontare la manifestazione post-lockdown della destra. E c’erano loro, gli ultras. Sguardi taglienti, come oggi.
Via Amulio era uno dei tanti stabili occupati della politica alla romana, che regge grazie alla cintura di trasmissione di una nebulosa di associazioni, gruppi, cooperative. Non è l’unico. Ci sono gli otto piani di Casapound a via Napoleone III, cuore della città multietnica che nessuno vuole sgomberare. C’è perfino la sede usata per decenni da Stefano Delle Chiaie, dietro Cinecittà, con qualche arnese un po’ arrugginito di Avanguardia nazionale che si ringalluzzisce appena alza il braccio destro. C’è il “circolo futurista”, insegna pretenziosa che nasconde il solito bancone della birra. Poco lontano da Via Amulio, a via Taranto, si danno appuntamento in uno stabile dell’istituto delle case popolari della Regione Lazio i camerati di Forza nuova. E l’elenco è sicuramente incompleto. Via Amulio, però, significa anche altro.
Basta girare la strada, superare l’angolo via Evandro. Fasci littori ed un’enorme celtica dipinta – quattro anni fa – nella piazzetta di via Acca Larenzia. In fondo un portone di ferro. Sopra la scritta ormai sbiadita, Msi. Poi bandiera italiana ed una targa, che ricorda tre ragazzi uccisi qui il 7 gennaio 1978. Due di loro dalle pallottole arrivate da militanti dell’eversione di sinistra, in una Roma che si preparava ad assistere al rapimento di Aldo Moro. Il terzo da un colpo di pistola partito dall’arma di un ufficiale dei carabinieri, come raccontano le cronache. Era inevitabile che diventasse un simbolo, anche quarantenni dopo. Qui, ogni 7 gennaio, si celebra il rito centrale della destra fascista. Ci vengono tutti, anche chi si è istituzionalizzato. Veniva qui Ciarrapico, l’editore dichiaratamente nero. Da qualche anno la liturgia principale è officiata da Casapound, che porta in massa militanti e muscoli. Ogni 7 gennaio si disegna la geografia di quel mondo; anche un piccolo dettaglio diventa un segnale. La sede degli Ultras della Lazio era in fondo una sorta di avamposto. Una vedetta, una porta, l’ingresso verso quel sancta sanctorum. Non solo e non appena un segno di appartenenza. Era una firma, l’icona di quella Roma che parte da ponte Milvio, attraversa la città e la ingloba seguendo il Grande raccordo anulare. Era la panchina di Fabrizio Piscitelli, Diabolik, o Diablo, come preferiscono chiamarlo da queste parti.
E’ la prima volta, almeno negli ultimi anni, che questo quadrilatero nero – chiuso tra via Amulio, via Evandro, via Acca Larenzia e via delle Cave – vede un intervento della polizia. Per decenni i saluti romani e i boia chi molla sono stati tollerati. In fondo commemorano i loro morti, sussurravano nei palazzi. In fondo qui ogni 7 gennaio trovi deputati, senatori, giornalisti, editori, imprenditori, avvocati. E’ un po’ come la Madonna di Polsi della destra fascista.