Mario di professione fa il parcheggiatore. Abusivo, come spesso capita a Roma. Gira attorno a via di Vigna Stelluti, zona nord della capitale. E’ ora di pranzo, i soliti clienti si affollano nel bar. Butta un’occhio alle automobili, chiede sussurrando la mancia. Basta un gesto, si avvicina al tavolo, va verso quel cliente che conosce da una vita: “Guadace ‘na cosa, guardace quella da dove siamo scesi. Vedi se qualcuno…”. Gli occhiali a mala pena coprono quel cerotto sull’occhio perso qualche decennio fa. Ma quel volto non lo dimentichi. Mario non fa in tempo a rispondere, l’amico del cecato aggiunge subito: “Sai tutto, l’hai visto da dove siamo scesi: così se te lo chiedono le guardie glielo dici da dove siamo scesi”. Rimane muto, capisce che l’aria sta diventando pesante. “Vieni qua, mettiti seduto. Che gli dici te alle guardie? Che cosa gli dici?”. “Ma niente”, riesce a rispondere.
E’ l’11 gennaio 2013. Le cimici dei carabinieri del Ros non riescono a riprendere il volto del povero parcheggiatore abusivo. Lo possiamo solo immaginare. Possiamo, forse, sentirlo deglutire. Se chiudiamo gli occhi vediamo il suo volto bianco. Su quel tavolino Mario balbetta davanti al “Re di Roma”, Massimo Carminati. Al suo fianco c’è Riccardo Brugia, il suo alterego. Stanno, come sempre, sotto il gazebo, ben visibili dalla strada. Non si nascondono, anzi. Il quartiere di Vigna Clara è il loro mondo, il territorio dove girare sicuri, il palcoscenico del potere da dove mostrarsi per affermare il comando e controllo. Da sempre zona dell’estremismo di destra, quella dura, quella dei Nar. Quella che negli anni di piombo sparava, faceva agguati, si riuniva nei bar e nei garage trasformati in sezioni dei gruppuscoli neofascisti per preparare rapine, o per indicare il nome da colpire. Sono strade dove, da pischelli, giravano con la pistola nella cintura, in una guerra mai terminata. Basta il volto. Basta quel cerotto sull’occhio sinistro. E basta il nome, il Samurai. Il linguaggio, a Roma nord, è fatto soprattutto di luoghi, di nomi di vie, di pezzi di memoria che non si cancellano. Scie di sangue, le scarpe usurate di un povero magistrato rimasto ucciso sul selciato, il ricordo delle P 38 e delle stragi. Carminati è il figlio prediletto di quell’epoca. La rivendica, la richiama, è quell’alone che sostiene il suo potere. Fino ad oggi, fin dentro l’aula bunker di Rebibbia, dove, quando lui parlava, i fascisti nascosti nel pubblico ascoltavano in silenzio, bevendo parola dopo parola.
“Ma queste battute che fai, ‘quattro uomini d’oro’, chi te le dice queste cose, chi te le dice? Perché fai battute che noi siamo i quattro uomini d’oro?”, continua Riccardo Brugia, guardando il volto di Mario, il parcheggiatore. Prova a rispondere: “Ma, io ho visto…”. Non riesce neanche a concludere la frase: “Ma tu cosa hai visto, scusa?”. Ed è Massimo Carminati a chiudere quel discorso: “Quattro uomini di piombo”. Non serve la minaccia esplicita, aperta, a Vigna Clara. In quello che il Samurai chiamerà, poche ore dopo, “Il mondo di mezzo”, basta un cenno, un gioco di parole. Oro e piombo. Brugia si spiega meglio: “Guarda che noi la carta di identità te la famo mandà dentro al cimitero. Bello mio vai ok … quattro uomini d’oro … Vaffanculo va, ma chi te se incula”. Mario si allontana. “Cri’… Devi mangia’, te se fredda”, commenta Carminati.
Sul Database di Memoriattiva sono disponibili le sentenze della Banda della Magliana e del primo grado del processo Mondo di mezzo